comincia nel cuore questo freddo, arrivato d’improvviso, senza bussare alla porta con discrezione si accoccola ai miei piedi e pretende di arrivare ai miei pensieri, con insistenza, decisione impotente, stanca e senza desideri lo lascio vagare sulla mia pelle, giocare con le mie labbra, sfiorare i miei occhi pur sempre un amico che arriva quando meno lo vorrei, è un amico un compagno di tempi che si succedono e che non vogliono mai allontanarsi del tutto lo temo e mi fa compagnia, gela le malinconie e i pianti, tramuntando le lacrime in cristalli salati, lasciando la pelle tirata che potrebbe spezzarsi al primo movimento gli occhi mi dolgono, hanno dentro piccole punte di ghiaccio che impediscono loro il sonno e il riposo, come cime innevate che il sole non vuole scaldare avvolgimi malinconia con un panno colorato e culla un corpo che ha bisogno di fuoco a volte accade che la malinconia si faccia uccello e mi racchiuda fra le sue ali, ma basta un lieve soffio di vento o un rosso o un giallo ad allontanarla da me
tanto per rendere meno noioso un pomeriggio grigio e piovoso e umido si potrebbe fare un simpatico giochetto come realizzare una foto che abbia un semplice “trompe l’eoil”, ecco in pochi passi come fare: serve un qualsiasi programma di grafica o fotoritocco anche quelli semplicissimi che si trovano free, oppure anche il programma “paint” che trovate fra il gruppo di “accessori” come dotazione di Windows , l’unica cosa importante è che abbia lo strumento per selezionare a mano libera,ma ormai lo hanno tutti i programmi anche quelli che si scaricano liberamente da internet, poi scegliamo una foto (i quadri sono legegrmente più complessi per la selezione), io ho scelto questa;
e per ottenere l’effetto ho deciso di far uscire una parte del gambo dalla foto stessa, quindi con lo strumento seleziona amano libera seleziono la parte del gambo che voglio far uscire così
dopo aver selezionato. clikkiamo su copia poi apriamo un nuovo foglio di lavoro e clikkiamo incolla, avremo a così a disposizione la nostra parte di gambo da utilizzare dopo, a questo punto tagliamo la nostra foto fino alla parte di gambo che abbiamo già selezionato e copiato nel nuovo foglio così
adesso siamo quasi alla fine, dobbiamo assemblare i pezzi in un foglio nuovo (ancora) il cui sfondo lo decidiamo noi, io consiglio sfondi chiari se la foto è scura e sfondi scuri se la foto è chiara poi sul nuovo foglio incolliamo la foto tagliata e il gambo che avevamo già scontornato cercando di far combaciare bene i due pezzi, a questo punto “uniamo gli oggetti allo sfondo” e per dare piu’ evidenza al tutto passiamo la foto in un filtro “plastica” o “rilievo” o altro filtro che aggiunga spessore alla foto e che si trovano in tutti i programmi e il risultato è davvero simpatico ed è questo
come vedete una parte del gambo esce dalla foto, e questo rende l’effetto trompe l’oeil! la stessa tecnica si usa coi quadri io anni fa ne avevo fatti diversi adesso vedo se li trovo, sono un po’ più noiosi da selezionare a mano ma vengono davvero bene!
Emmanuel Radnitsky (Man Ray) americano 1890 – 1976
un personaggio molto particolarem, fotografo, pittore, amante della letturatura e della poesia, amico di Duchamp. di Picabia, di Breton di Eluard, ha attraversato il movimento DADA e il SURREALISMO, rimanendo sempre fedele al suo modo così particolare di riprendere la realtà, sempre che di realtà si voglia parlare il cambio del nome in Man Ray “uomo raggio” è significativo, è come una via aperta al raggio di “luce”, ovvero l’illuminazione come caratteristica primaria della sua opera Il suo interesse-amore per la luce e per il mutare delle ombre in rapporto ai cambiamenti d’illuminazione (si era ai primi tempi dell’eletricità), è assolutamente evidennelle sue prime fotografie, sono oggetti comuni, ma sempre accompagnati dalle loro ombre spesso enormi, celebre fra queste La femme, è come se con Man Ray tornasse il mito della caverna di Platone nasce a Filadelfia (Pennsylvania) da genitori ebrei russi con i quali parte, all’età di sette anni, per New York. Nella metropoli americana prendono residenza nel quartiere di Brooklyn. Al liceo, Emmanuel frequenta le lezioni di pittura e successivamente, appena diciannovenne, studia alla Scuola delle Belle Arti di New York, seguendo contemporaneamente corsi di disegno e di acquarello presso il Ferrer Center. A Ridgefield, nel New Jersey, dove vivrà per quattro anni, lavora come disegnatore pubblicitario. Tenta dunque, insieme al poeta Alfred Kreymborg, di fondare una comunità artistica. Incontra Alfred Stieglitz ed entra in contatto con l’avanguardia americana. La scoperta dei movimenti artistici europei avverrà nel 1913, dopo aver visto le opere di Marcel Duchamp e Francis Picabia all’Armory Show. Realizza quindi il suo primo quadro cubista: un ritratto di Alfred Stieglitz. Si sposa con la poetessa Adon Lacroix con la quale pubblica il libro A Book of Diverse Writings. La guerra in corso in Europa blocca il suo progetto di recarsi a Parigi. A venticinque anni, Man Ray acquista una macchina fotografica per riprodurre i suoi quadri e fonda la prima rivista americana dadaista The Ridgefield Gazook: quattro pagine con sue illustrazioni e testi di sua moglie, Adon. E’ l’anno del suo incontro con Duchamp e della sua prima esposizione alla Daniel Gallery di New York. Nel 1919 si separa dalla moglie, pubblica l’unico numero di TNT, rivista di tendenza anarchica, e inizia una collaborazione fotografica e cinematografica con Marcel Duchamp. I due, insieme a Katherine Dreier, Henry Hudson e Andrei McLaren fondano la Société Anonyme, un museo d’arte d’avanguardia. durante la quindicesima mostra annuale di fotografia, vince un premio per un ritratto di Berenice Abbott, allora scultrice e in seguito fotografa e sua assistente per tre anni. Il sodalizio con Marcel Duchamp è ormai consolidato e Man Ray lo raggiunge finalmente a Parigi dove incontra i dadaisti e fa la conoscenza di Jean Cocteau, Erik Satie e Kiki de Montparnasse. Sono anni ricchi di attività artistiche: pubblicazione di libri, partecipazioni a decine di mostre personali e collettive, la realizzazione delle rayografie, di immagini di nudo, ritratti e fotografie di moda. Nel 1923 gira Retour à la raison, il primo di alcuni film (Anémic cinéma, Emak Bakia, L’Etoile de mer, Les Mystères du Chateau de dé). Nel 1929, Lee Miller diventa la sua assistente (e lo sarà fino al 1932). L’invasione nazista del 1940 costringe Man Ray a lasciare la capitale francese alla volta di New York per stabilirsi successivamente a Hollywood, dove incontra Juliet Browner, sua futura moglie, e dove rimarrà per 11 anni prima di ritornare a Parigi. Alla Biennale di Venezia del 1961 riceve la medaglia d’oro per la fotografia mentre nel 1971 gli saranno dedicate due retrospettive, a Rotterdam e a Milano (alla Galleria Schwarz), comprendenti 225 lavori realizzati tra il 1912 e il 1971.
E’ sempre rimasta dubbia l’opportunità di collocare Man Ray nell’ambito della fotografia, piuttosto che in quello dell’avanguardia dada, poiché fra i dadaisti era comune la rinuncia alle tecniche specificamente artistiche (legate al passato, di cui si voleva fare tabula rasa) per quelle moderne della produzione industriale, utilizzate anch’esse in maniera non convenzionale e creativa. A quel periodo risalgono, infatti, le cosiddette “Rayografie”,
chiamate ora comunemente “fotogrammi”, sono immagini nate in camera oscura senza l’ausilio di una macchina fotografica, grazie al processo chimico che la luce innesca sui materiali fotosensibili: il risultato è quello di un negativo degli oggetti opachi o traslucidi che sono stati appoggiati sulla carta. Man Ray ne rivendica la paternità di “scoperta casuale”, ma la stessa tecnica è impiegata in quegli anni da Laszló Moholy-Nagy che, membro della Bauhaus, indaga le implicazioni gestaltiche di tali figurazioni. Bauhaus e Dada, del resto, partono da un’uguale idea di “universalità” dell’arte, alla quale possono concorrere le tecniche più disparate, arrivando tuttavia ad opposte istanze: di ricostruzione della società attraverso l’arte (dopo la prima guerra mondiale), l’una; l’altro di decostruzione d’ogni regola e convenzione borghese. Così le Rayografie, su questo sfondo culturale, acquistano un valore destabilizzante per le attese mimetiche ed iconiche, rispetto ad una tecnica ritenuta garanzia massima di realismo, e pongono le premesse ad un discorso critico sul linguaggio fotografico, che verrà affrontato esaustivamente molto tempo dopo da Ugo Mulas. Resta il dubbio che per Man Ray non fossero altro che l’esito naturale della propria ricerca “pittorica” e luministica. Di certo egli ritiene la fotografia una liberazione dalla “fatica di riprodurre le proporzioni e l’anatomia dei soggetti”, che gli permette d’indagare con la pittura nell’immaginazione e nell’inconscio. E afferma: “Io fotografo ciò che non voglio dipingere e dipingo ciò che non posso fotografare”. Non lo interessa, dunque, per niente la competizione fra pittura e fotografia, che considera due campi totalmente distinti ed in certo qual modo complementari per la sua espressione. Continuerà, anzi, sempre ad operare in entrambi; si occuperà inoltre di scultura, cinema (sono sue le prime riprese del Ballet mécanique di Fernand Léger) e produrrà anche quei ready made “aiutati” (nati dall’accostamento di cose fra loro incongruenti, ma atte a generare un nuovo senso), che chiamerà “oggetti d’affezione”. Nelle sue fotografie appariranno spesso tali assemblaggi, partecipi del nuovo clima surrealista, evocato da titoli fantasiosi che costituiscono una chiave di lettura letteraria (non letterale), e simbolica delle immagini. Questo gusto per lo scarto intellettuale e poetico provocato da un titolo inatteso, è tuttavia intimamente legato ai trascorsi dada di Man Ray ed alla sua polemica sulla convenzionalità dei segni linguistici (sono questi gli anni delle ricerche di Saussure): così ne La femme, foto di un frullatore
e la sua ombra, il valore dell’operazione è quello dada di un’alienazione di senso, tale che una sua seconda stampa può indifferentemente intitolarsi L’homme, accentuando i propri richiami alle concezioni “meccanico-sessuali” di Picabia, nonché alle teorie freudiane, che vogliono l’anima umana non univoca, ma portatrice in germe di caratteristiche dell’altro sesso
Elliott Erwitt – Elio Romano Erwitz fotografo americano 1928
se è vero che Erwitt è tra i fotografi che più di altri hanno saputo separare , e tenere separate, l’attività di ricerca personale da quella commerciale (“io sono il miglior cliente di me stesso!”), è altrettanto vero , per sua ammissione, che talvolta vi può essere una sovrapposizione, una committenza, magari anche ben retribuita, “che ti chiede di realizzare fotografie che tu avresti comunque scattato, solo per passione. Allora è il massimo”
dalle immagini del fotografo traspare anche il carattere dell’uomo-Erwitt, che è profondamente buono, Erwitt è un tenerone la sua tenerezza si riversa soprattutto sui cani e sui bambini. li ha fotografati entrambi dal giorno stesso in cui ha preso in mano una macchina fotografica; ai cani ha dedicato un libro intero “Dog Dogs”, cominciando proprio dal giorno stesso in cui scese da un autobus per mettere piede a New York
ma Erwitt ha anche uno spiccato senso dell’umorismo: una ironia affettuosa che si esprime nella battuta sempre pronta, tanto nella conversazione, come al momento di far scattare l’otturatore, e nel piacere del paradosso è un uomo che pensa in positivo, non è che chiuda gli occhi dinnanzi alla realtà : semplicemente la sua incrollabile avversione per ogni forma di violenza e sopraffazione si manifesta nella sua forografia, come nella vita stessa, con la riflessione eun invito alla riflessione
quel primo piano di Jacqueline Kennedy ai funerali del marito ha emozionato e commosso più della stessa sequenza dell’attentato che tutti hanno visto e rivisto in televisione
così come l’immagine dei due lavandini “white and colored”,
ben al di là del suo valore documentario sulla discriminazione razziale negli U.S., è diventata un simbolo, il simbolo potentissimo e straziante, di una qualunque ingiustizia nel mondo!
QUI potete trovare un simpatico viaggio attraverso la sua mostra -“Elliot Erwitt. Family”
Imogen Cunningham, fu senza dubbio una grande fotografa, non solo ebbe l’estro della composizione e dell’uso della luce, ma era anche molto preparata tecnicamente nasce nel 1883, comincia a fotografare nel 1901 inspirandosi al lavoro di Gertrude Kaesebier Nata a Portland, Oregon, si laurea all’Università di Washington a Seattle con un master in chimica ed andò a lavorare nello studio di Edward S. Curtis, dove imparò il processo dello stampare nel 1909 proseguì la sua istruzione in chimica fotografica al Technische Hochschule a Dresda incontratasi con Kaesebier ed Alfredo Stieglitz a New York, dopo il suo viaggio di ritorno dall’Europa, Imogen si stabilisce a Seattle verso il 1910 ed apre un studio di “ritratti” che ebbe un successo immediato. Nel 1915 si sposa con Roi Partridge il suo lavoro più conosciuto riguarda gli studi floreali del suo giardino e fu prodotto durante gli anni venti, si può dire che fu uno dei pionieri del modernismo sulla Costa Dell’ovest, fu fra i membri fondatore del Gruppo dei 64& e fu senza dubbio una straordinaria ritrattista, dopo che il suo ritratto della ballerina Martha Graham fu pubblicata su Vanity Fair nel 1932
Martha Graham: la faccia di quest’ultima è incorniciata dalle sue mani, gli occhi chiusi e il viso rivolto verso la luce. Le sue mani sono premute contro entrambi i lati della sua tempia come se stesse cercando di fermare la testa dalle pulsazioni e Imogen ha interpretato la danza di Graham attraverso i suoi gesti per incarnare la sua tesi secondo cui “la vita è nervosa, acuta e a zig-zag”, l ritratto del primo piano di Graham come ballerina è insolito perché è disincarnato, tuttavia, solo le mani, in questo caso, catturano uno dei gesti angolari e stilizzati per i quali il coreografo è più conosciuto
lavorò a New York e a Hollywood fino al 1934 il riconoscimento più grande per il suo lavoro lo ebbe dopo gli anni 50 e nel 1970 le fu assegnato la prestigiosa “Guggenheim Fellowship”, ha esposto a San Francisco all’ Art Museum, presso l’Istituto d’ Arte di Chicago, ed il Metroplolitan Museum. all’età di 92 anni cominciò l’ultimo progetto: un libro di ritratti, ma sopraggiunse la morte nel 1976 fu dunque una artista notevole e precorse per alcuni versi la tecnica della fotografia, la sua conoscenza della chinica applicata alla fotografia le hanno permesso di raggiungere nello sviluppo della fotografia, livelli notevolissimi soprattutto per quegli anni, rivolse la sua attenzione sia alle forme di piante “nude” che a quelle native nel suo giardino. I risultati furono sbalorditivi; uno straordinario lavoro composto da forme audaci e contemporanee, queste opere sono caratterizzate da una precisione visiva non scientifica, ma che presenta le linee e le trame dei suoi soggetti articolate dalla luce naturale e dai loro gesti
l’approccio di Cunningham alla ritrattistica è caratterizzato dallo stesso approccio semplice e senza fronzoli, tra i ritratti che ha realizzato per la rivista Vanity Fair negli anni ’30, per esempio, c’è uno di Cary Grant accovacciato contro un muro di mattoni imbiancati nel suo cortile, la star del cinema è catturata dalla luce solare screziata, il viso in ombra parziale, con queste fotografie di celebrità, Cunningham ha dichiarato di voler “bucare la facciata di Hollywood”, altro ritratto straordinario è quello di Frida Khalo
Cary Grant e Frida Khalo
credo amasse l’immagine non abbellita, nettamente definita, sembra sempre essere stata al suo meglio quando all’argomento è stata data una priorità indiscussa rispetto all ‘”idea”, l’empatia piuttosto che l’invenzione estetica è stata il suo punto di forza, guidando il suo occhio e la sua lente verso le sue immagini più potenti e delicate insieme come i suoi nudi di donne e uomini per cui fu anche bollata come donna “immorale”, il primo nudo fu di suo marito
suo marito Roi Partridge
per gran parte del secolo scorso, la fotografia come forma d’arte è stata dominata dagli uomini, se si considerano le conchiglie, le dune e i nudi catturati con estrema precisione da Edward Weston o le maestose cascate e cattedrali di pietra che dominano le immagini basate su Yosemite di Ansel Adams, ma Imogen ha mostrato come il tocco femminile anche nella fotografia d’autore sia fondamentale, io la amo molto i suoi fiori in BN mi ricordano molto quelli coloratissimi di Georgia O’Keeffe
è nato a Oshkosh nel Wisconsin e ha studiato sociologia all’Università di Chicago e New York, diventando un insegnante, poi ha usato la fotografia come un mezzo per raccontare le sue “preoccupazioni sociali”
il suo primo lavoro fotografico caratterizzato dalle immagini degli immigrati di da Ellis Island nel 1908, Hine abbandona il suo posto di insegnante per un lavoro a tempo pieno come fotografo investigativo per il Comitato Nazionale sul Lavoro Minorile, e ha poi condotto una campagna contro lo sfruttamento dei bambini americani
dal 1908 al 1912, Hine ha preso la sua macchina fotografica e ha girato in tutta l’America per fotografare i bambini anche di appena tre anni di età che lavorano per lunghe ore, spesso in condizioni pericolose, in fabbriche, miniere e campi Hine è stato un fotografo di grande talento che ha guardato i suoi giovani soggetti con l’occhio carico di grande umanità
nel 1909, ha pubblicato il primo di molti saggi fotografici raffiguranti bambini lavoratori a rischio, in queste fotografie, l’essenza della giovinezza sprecata è evidente nei volti tristi e anche arrabbiati, alcune delle sue immagini, come la ragazza nel mulino che si intravede dalla finestra, sono tra le più famose fotografie mai scattate
durante la prima guerra mondiale, ha documentato la situazione dei profughi per la Croce Rossa Americana, successivamente ha documentato la costruzione di l’Empire State Building nel 1930-1931 e appendendosi a testa in giù da una gru per fotografare gli operai
al Museo Getty si può trovare una raccolta delle sue foto!
Lavoro minorile oggi:
Se vivessero tutti in unico Paese, costituirebbero il nono Stato più popoloso al mondo: sono i 152 milioni di minori tra i 5 e i 17 anni, 1 su 10 al mondo, vittime di sfruttamento lavorativo, di cui quasi la metà – 73 milioni – costretti a svolgere lavori duri e pericolosi, che ne mettono a rischio la salute e la sicurezza, con gravi ripercussioni anche dal punto di vista psicologico
Questa terribile piaga non risparmia neanche l’Italia dove, solo negli ultimi due anni, sono stati accertati più di 480 casi di illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti, sia italiani che stranieri. Un numero senza dubbio sottostimato a causa della mancanza, nel nostro Paese, di una rilevazione sistematica in grado di definire i contorni del fenomeno. Basti pensare che secondo l’ultima indagine sul lavoro minorile in Italia, diffusa dalla nostra Organizzazione e Associazione Bruno Trentin nel 2013, i minori tra i 7 e i 15 anni coinvolti nel fenomeno erano stimati in 260.000, più di 1 su 20 tra i bambini e gli adolescenti della loro età.
IL LAVORO MINORILE NEL MONDO Nonostante i progressi significativi compiuti negli ultimi 20 anni, il mondo è ancora lontano dal raggiungere l’obiettivo di sradicare ogni forma di lavoro minorile entro il 2025, come previsto negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, e in base al trend attuale, in quella data, vi saranno ancora 121 milioni di minori vittime di sfruttamento lavorativo.
Del totale dei minori vittime di sfruttamento lavorativo oggi presenti al mondo, 79 milioni hanno tra i 12 e i 17 anni di età, mentre 73 milioni sono molto piccoli, tra i 5 e gli 11 anni, e quindi ancor più vulnerabili ed esposti al rischio di conseguenze sul loro sviluppo psico-fisico. Quasi la metà del totale (72 milioni) si trova in Africa, con Mali, Nigeria, Guinea Bissau e Ciad che fanno registrare le percentuali più alte di bambini tra i 5 e i 17 anni coinvolti nel lavoro minorile. In questi Paesi, infatti, lavora più di 1 bambino su 2; quasi 1 su 3 (29%) se si considera l’area dell’Africa subsahariana dove, rispetto al passato, la lotta al lavoro minorile non soltanto non ha fatto registrare alcun miglioramento ma, al contrario, ha visto un incremento del fenomeno.
io e mia figlia con quasi il suo metro e ottanta e la mia “piccolissima dimensione”
“”….Petra è il più bel luogo della terra. Non per le sue rovine, ma per i colori delle sue rocce, tutte rosse e nere con strisce verdi ed azzurre, quasi dei piccoli corrugamenti, e per le forme delle sue pietre e guglie, e per la sua fantastica gola, in cui scorre l’acqua sorgiva e che è larga appena quanto basta per far passare un cammello. Ne ho letto una serie infinita di descrizioni, ma queste non riescono assolutamente a darne un’idea e sono sicuro che nemmeno io sono capace di farlo. Quindi tu non saprai mai che cosa sia Petra in realtà, a meno che tu non ci venga di persona.” “Solo le immagini in un sogno di fanciullezza si affacciano talvolta così immense e silenziose…….” Thomas Edward Lawrence (Lawrence d’ Arabia)
Petra è nel mio cuore , nella mia mente e nelle mie fantasie da quando avevo 20 anni, ritorno quando posso a Petra e riesco a ritrovare la magia di sempre, anche se adesso è diventata meta di molti “Turisti”, che non sanno guardare con gli occhi della mente, ma solo “vedere” le bellezze geografiche
Petra non è soltanto quello che è scritto in tutti i siti internet se digitate il suo nome essa è un qualcosa in piu’ è la magia di costruzioni uniche che hanno richiesto anni e anni di progettazione, che hanno richiesto conoscenze architettoniche molto avanzate è l’espressione di una civiltà colta raffinata e non soltanto un crocevia per mercanti
è il luogo dove si rifugiavano i poeti, i cantori e componevano le loro melodie ispirndosi ai colori delle rocce
se andate a cercare su Internet troverete molte immagini, ma sempre molto simili fra loro, come se i turisti si fossero messi d’accordo, su quali siano le cose migliori da fotografare e come
la cosa piu’ incredibile di Petra oltre ai colori delle rocce è la luce, una luce indefinibile, che cambia col variare delle ore e il cielo assurdamente blu e limpido, da farti chiudere gli occhi perchè non puoi guardare questi due elementi quando fai le fotografie le rendono a volte magiche e irreali e quindi i fotografi usano dei filtri e fanno degli aggiustamenti, perchè questa luce così prepotente crea fenomeni che in fotografia si è sempre pensato fossero “spiacevoli”
io qui metterò delle foto fatte nel 2000 da mia figlia che allora aveva 14 anni e che tentò di fotografare Petra e la sua luce senza alcun fltro a queste foto vecchie ormai e un po’ consumate, fatte con una macchina non digitale, tengo molto..
dal Web Fu un viaggiatore anglo-svizzero, Johann Ludwig Burckhardt (1784 – 1817), che nel 1812, recandosi da Damasco al Cairo, sentì parlare di un’antica città stretta fra montagne impenetrabili e decise di andare a cercarla. Sapeva parlare arabo e così, col nome di Sheik Ibrahim e travestito da commerciante musulmano, raccontò di aver fatto voto ad Allah di sacrificare una capra al profeta Aronne presso la sua tomba in cima a Gebel Haroun , un’alta collina sovrastante la città segreta. Convinse due indigeni a guidarlo attraverso il siq, un’angusta gola scura con pareti a picco, larga in certi punti poco più di un metro, che si snoda per quasi un chilometro e mezzo tra torreggianti blocchi di arenaria rossa decorati e intagliati. All’improvviso, il siq emerse dall’oscurità e a Burckhardt apparve il primo e più sensazionale monumento della città: il Khazneh, la Casa del Tesoro, una risplendente costruzione nabatea rosso cupo, che ancora oggi contrasta con il paesaggio circostante . Là Burckhardt tracciò sui suoi ampi indumenti uno schizzo dell’edificio, poi compì una breve visita attorno alla città e, al cadere delle tenebre, sacrificò la capra ai piedi del tempio di Aronne prima di fare ritorno a Elji.
Chi erano gli abitanti di Petra? Gli scavi hanno rivelato che gli Edomiti, i futuri nemici degli Israeliti, erano insediati qui già nel secondo millennio a.C. Nel 500 a.C. essi furono poi cacciati dai Nabatei, nomadi giunti dal sud, che in questo luogo eressero la loro capitale. Strategicamente situata al punto d’incrocio fra antiche arterie commerciali, Petra era gremita di mercanti che vi trasportavano i loro prodotti da Damasco e dall’Arabia, dal Mediterraneo e dall’Egitto. Servendosi di questa città praticamente inespugnabile come base, i Nabatei controllavano le rotte delle carovane e ammassavano ricchezze, dando vita a una fiorente civiltà. La roccia non costituì un problema per questa popolazione, tanto che la loro principale divinità, Dushara, era simboleggiata da massi di pietra e obelischi disseminati nel siq e un po’ dappertutto nella città. Nel 63 a.C. i Romani tentarono di impadronirsi della città sferrando un assalto improvviso, ma essi riuscirono nel loro intento solo nel 106 d.C., quando Petra entrò a far parte, sembra senza opporre resistenza, della provincia romana d’Arabia. Nonostante la dinastia nabatea si fosse ormai estinta, la popolazione locale coesistette con quella romana per oltre un secolo. Nel IV secolo, quando Petra fu assorbita dall’Impero Bizantino, la Tomba dell’Urna, una delle più grandi di epoca nabatea, fu trasformata in chiesa e la città diventò sede di un episcopato. Ma a partire dal VII secolo, cioè dall’ascesa dei musulmani – se si eccettua la breve permanenza dei Crociati che innalzarono posti di guardia fortificati su due cime dei dintorni – la storia sul destino di Petra tace, fino al 1812.
questa è la zona aperta e semi desertica che porta verso la valle siamo direi alla periferia di Petrae la luce e d i colori sono proprio quelli, sono così.
l primo impatto con le enormi rocce che delimitina il sentiero della valle colori da mille e una notte