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Carmen Martín Gaite: una donna

“l’amore è stare con qualcuno che ti racconti qualcosa”, queste pariìole che lessi per caso su di un giornale anni fa segnarono il mio incontro con questa donna che molto ho amato e di cui ho letto molto

Carmen Martín Gaite nacque a Salamanca nel 1925. Dal padre, un notaio amante della letteratura, imparò ad apprezzare i libri, e dalla madre ereditò la propensione alla fantasia.
Laureatasi in Lettere e Filosofia nella sua città natale, si trasferì a Madrid, dove conseguì il dottorato con una tesi, poi pubblicata, dal titolo “Usos amorosos del dieciocho en España”, e sposò il romanziere Rafael Sánchez Ferlosio, dal quale tuttavia presto si separò.

La sua torrenziale opera va dai numerosi romanzi (tra cui Entre visillos, Retahílas, El cuarto de atrás) e racconti (El balneario, Cuentos completos y un monólogo), alla saggistica (Usos amorosos de la postguerra española), alla poesia, al teatro (La hermana pequeña), alla sceneggiatura (sceneggiò tra l’altro una serie televisiva su Santa Teresa d’Avila) e alla traduzione (Primo Levi, Svevo e Natalia Ginzburg tra gli italiani, che aveva imparato a conoscere nei suoi frequenti viaggi nel nostro Paese, dapprima al seguito del marito, che vi era nato, quindi per la presentazionedei suoi romanzi tradotti in Italia).
Le sono stati conferiti numerosi e prestigiosi premi, tra cui il Nadal (1957), il Príncipe de Asturias de las Letras (1988), il Castilla y León de las Letras (1992) e il Nacional de las Letras (1994) per l’intera sua opera.
È stata la prima donna a ricevere il Premio Nacional de Literatura, conferitole nel 1978 per il romanzo Elcuarto de atrás.
È scomparsa nel 2000.

definirla con una etichetta è impossibile, poetessa, scrittrice, saggista , i suoi interessi sono molteplici e variegati:l’amicizia, l’amore, la memoria, il trascorrere del tempo costituiscono la materia dei suoi versi, così come l’importanza della comunicazione, che gioca un ruolo di primo piano in tutta la produzione di Martín Gaite: i suoi romanzi sono caratterizzati da un continuo ricorso al dialogo, riportato nella forma più oggettiva possibile, il discorso diretto
l’esigenza di comunicare era per lei molto più profonda e radicata di una semplice adesione a principi estetici: in alcune interviste dichiarò infatti che una buona conversazione, è la forma più diretta di comunicazione, e che poteva anche essere meglio di un libro; e quanto ai libri, memore dell’antica abitudinedi letture ad alta voce in casa, nei caffè o in classe, riteneva che esse costituissero un piacere la cui condivisione poteva consolidare l’amicizia.
Nei suoi versi, tanto in quelli giovanili quanto in quelli successivi, il bisogno di comunicare è dimostrato dal fatto che quasi ogni componimento ha un esplicito interlocutore: un “tu” (e in qualche caso un “voi”) che talvolta rimane imprecisato, ma che più spesso assume l’identità del consorte, della sorella, della madre o di un’amica.

vi lascio alcune sue poesie

Che fare con le parole?

Che fare con le parole,
gregge pertinace
che un tempo rispondeva
al fischio del pastore
e trottando per rupi
e per gole
veniva a raccogliersi
sotto la luce violetta
nell’ovile?
Oggi sporche, scorticate e vinte
compiono la routine del loro ritorno.
Le guardo intorno
sparse;
non so che voglio da loro
né riesco a ricordare chi me le affidò
né dove devo condurle.
Incerte si appaiano
in un arabesco cieco e incomprensibile,
addentrandosi nei miei sogni,
mentre la notte sorda
soccombe.

Rifugio provvisorio

S’è lacerato il manto che tutto copriva,
freddo, perfidia, paura, discordie familiari,
e ora un miscuglio di corpi indifesi,
di oggetti rotti e scompagnati
si sparge per la terra con le viscere scoperte.
S’è lacerato il manto che celava ai nostri occhi
la paura e la miseria.
Il pezzo più grande non basta neppure per la benda
di un ferito, no, né per un fazzoletto.
Tra le macerie
sporge un cestino del cucito, rotto.
Una bambina si avvicina carponi
e si fa una casetta senza tetto
con mattoni spezzati.
Ha strappato un brandello
da quel manto che tutto copriva,
e si allontana a ricamare
su uno dei suoi molti buchi
un fiore giallo,
del colore dell’infanzia
e della follia.
(La guerra del Golfo)
25 febbraio 1991

Araldi della sconfitta

Non so perché gli uccelli
non vengono di nuovo.
Quegli uccelli.
La sera li convoca.
Nulla in tutto il mio corpo,
intorpidito, cieco agli stimoli,
potrebbe rivivere, tremare, accusare febbre
in questa sera strana, tinta di cenere,
a meno che il miracolo
di quell’enorme svolazzo
non assalisse i miei occhi all’improvviso.
E il mio corpo allertato, come da un clarino,
si lancerebbe di nuovo nell’arena
e impugnerebbe le armi della vita,
perfino per soccombere.
Il mio resuscitato essere,
rivestito di una maschera da capitano pirata,
s’imbarcherebbe in navi dalla vela spiegata
con loro davanti,
stormo fantasma,
uccelli infausti,
araldi della sconfitta,
che un giorno foste bandiera di speranza.

òe poesie sono tradotte da Giulia Canali

alcuni suoi libri tradotti

La stanza dei giochi, traduzione di Michela Finassi Parolo, Milano, La tartaruga, 1995,
Cappuccetto Rosso a Manhattan, traduzione di Michela Finassi Parolo, Milano, La tartaruga, 1993
Nuvolosità variabile, traduzione di Michela Finassi Parolo, Firenze, Giunti, 1995
La regina delle nevi, traduzione di Michela Finassi Parolo, Firenze, Giunti, 1996

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IL TEMPO DEL MAGLIS: IL PIACERE COME SACRO RITUALE

stamane vorrei lasciarvi alcuni pensieri di Fatema Mernissi una scrittrice a me molto cara, che ha raccontato un mondo nel quale ho vissuto per qualche tempo e che ho imparato ad amare.

da “L’Harem e l’Occidente” di Fatema Mernissi

“”…Non è possibile sperimentare un forte coinvolgimento sensuale, se si continua a guardare l’orologio ogni dieci minuti: questa è la lezione che ho tratto dalla lettura dei testi di storia medievale, nel tentativo di afferrare la magica vita di Harun ar-Rashid.

Ciò che quest’uomo faceva era pianificare il maglis, il tempo del piacere, esattamente come egli calcolava il tempo per preparare le sue battaglie. Il dovere di un Califfo musulmano è aspirare al wasat, il punto di mezzo ideale tra due estremi, trovare un equilibrio tra le tentazioni terrene e le aspirazioni celesti, tra vita e morte, piacere e guerra. Il maglis doveva svolgersi, come una battaglia, secondo un copione prestabilito in cui gli attori e la scena – giardini o escursioni – così come le vettovaglie – cibi e vini – fossero attentamente studiati.

La parola maglis viene dal verbo gialasa, ovvero sedersi, ma con l’idea di rilassarsi senza muovere un dito per qualche tempo, per puro godimento, così da non sentirsi in dovere di saltar su o essere chiamati ad altre faccende.

Il maglis implica la decisione, da parte di un gruppo di persone accomunate da affinità, di incontrarsi in un posto gradevole, un giardino o una terrazza, per il puro e semplice piacere di conversare e passare bene il tempo. “Per maglis musicale, si intendeva un raduno di persone al fine di assistere a esecuzioni e competizioni musicali”, spiega George Dimitri Sawa, che ha dedicato all’argomento un libro intero. Le persone venivano per godere dell’apprendere, ascoltandosi l’un l’altro, e partecipare a “discussioni e dibattiti sulla musica, o sulla storia, la teoria, la critica e l’estetica”. Quando si svolgeva al chiuso, “il maglis aveva luogo in sale superbamente decorate. Pavimenti e pareti erano realizzati in marmo e ricoperti di broccato in seta ricamato a filo d’oro….”””

non è mia intenzione fare una recensione del librp o dei libri di Fatema -Mernissi, non ne sono in grado, posso solo dire che la sua scrittura è affascinante e apre porte spesso chiuse o volutamente chiuse su di un mondo che , se conosciuto davvero, avrebbe molto da dirci, vi lascio solo alcuni titoli di suoi libri che forse leggendoli potrebbero farci volare in mondi altro da noi, ma sempre capaci di raccontarci vita

La terrazza proibita. Vita nell’harem

Karawan. Dal deserto al web

Chahrazad non è marocchina

Le donne del profeta. La condizione femminile nell’Islam

Islam e democrazia. La paura della modernità

Le sultane dimenticate

Il Giovane Holden, raccontato da Martino Gozzi

Martino Gozzi è il direttore didattico di Accademy della scuola Holden di Torino, ha scritto “Una volta Mia” (peQuod), “Giovani Promesse” (Feltrinelli), “Mille volta mi ha portato sulle spalle” (Feltinelli), ha tradotto diversi libri per Fandango Libri e d ha sceneggiato film per Cherry Road Films e non ultimo in ordine di importanaza è mio nipote!

io credo che questa sua narrazione del Giovane Holden meriti di essere ascoltata, almeno da chi ha amato questo libro e da chi ha voglia di leggerlo!

buon ascolto

Rebus Sic Stantibus

Timeo Danaos et dona ferentes

4000 Wu Otto

Drink the fuel!

quartopianosenzascensore

Dura tenersi gli amici, oggigiorno...

endorsum

X e il valore dell'incognita

Cucinando poesie

Per come fai il pane so qualcosa di te, per come non lo fai so molto di più. (Nahuél Ceró)

Nonsolocinema

Parliamo di emozioni

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... ma senza prendersi troppo sul serio

Parola di Scrib

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