Il WADI RUM o della Valle della Luna

Ieri parlando con Luisa di deserti abbiamo ricordato il Wadi Rum e io ho ripescato un post che avevo fatto due anni fa proprio sul Wadi

il Wadi Rum definito anche Valle della Luna, è un affascinante Spazio di sabbia rossa da cui si alzano montagne di Roccia, fu molto amato da Laurence d’Arabia, che ne conosceva anche i piu’ reconditi segreti.
si trova a 30 Km da Aqaba, quindi abbastanza vicino al Mar Rosso, ed è da tanti anni il mio posto delle Fragole. di solito per arrivare al piccolo villaggio di Rum si usa la macchina e poi se uno vuole a piedi o a cavallo
entrare nel Wadi Rum è come entrare in un altro Mondo, un luogo silenzioso, enorme, incredibilmente senza tempo
montagne massicce e sagomate spuntano dalla sabbia rosa/rossa, in questo scenario il deserto è vivo, palpitante, di una strana bellezza con le rupi torreggianti di pietra scavata dal tempo, e dai colori indefinibili e mutanti secondo le ore del giorno e le stagioni
tutto intorno è vuoto e silenzio e in questi spazi immensi, ci si sente rimpiccioliti ridotti a granelli di sabbia ed è una senzione straordinaria, avverti fin nel profondo di far parte di quel paesaggio
ti sembra di percorrere le antiche valli della luna, e di trovare ad ogni passo tesori nascosti da milleni, senti in lontananza il galoppo di L.D’Arabia, che rincorre le tue orme e le tue fantasie
l’aria calda sembra gonfiare le colline e i canyon, e il cielo è limpido, terso di un azzurro cupo e a volte violento
la notte ti riporta ad un cielo stellato, aperto, ci puoi leggere come in una antica mappa,l a tenda nera dei beduini è una macchia scura in un buio, mai veramente tale, i suoni di un rababa si perdono nello spazio come cerchi concentrici che si allontano con tenera malinconia
ascolti il suono del silenzio, dei ricordi, dei sogni e dei desideri, del futuro
amo il deserto del Wadi, come nessun altro posto che ho conosciuto, amo l’ospitalità semplice e sincera dei bedu, amo il gaue morra, forte, amaro con quel sapore di hel che ti resta nella bocca nel tempo, amo ascoltare le ballate di Abu Tarek che parlano di guerrieri e di duelli, di caccia e d’amore per splendide fanciulle dalla pelle di pesca, amo svegliarmi all’alba raccolta nella pelle di montone, col suo sapore aspro, non ancora perduto, amo le voci squllanti dei bambini trattenute per non disturbare, amo il pane sottile e trasparente cotto sulla pietra
amo sì amo la sensazione di libertà assoluta, dai pensieri, dal quotidiano, da me stessa

Martin Johnson Heade un americano originale

Martin Johnson Heade
americano 1819 – 1904

padrone della luce, delle atmosfera e dei “profumi”, l’artista ora è riconosciuto come uno dei pittori romantici americani piu’ importanti. anche se Heade durante la sua carriera durata 65 anni aveva avuto un discreto successo, la sua reputazione era stata oscurata da una indifferenza della critica nei suoi confronti
per quasi la metà di secolo dopo la sua morte, era come se non avesse mai dipinto nulla, tuttavia, negli ultimi annni è nato un nuovo interesse per il suo lavoro e oggi Heade è ammirato per la sua originalità e per gli effetti atmosferici leggeri, eleganti. per la luce ed il calore che le sue tele emanano
non è mai stato troppo in un luogo. e i soggetti delle sue tele mutano col mutare degli Spazi, dalla giungla brasiliana alle paludi della Nuova Inghilterra, dove comunque ci sono orchidee che la fanno da protagoniste della scena o farfalle od uccelli, la rappresentazione dei fiori a volte assume persino toni sensuali e magici.


gli storici dell’arte sono giunti a non essere d’accordo con l’opinione comune che Heade sia un pittore della Hudson River School, un’opinione ampiamente diffusa dall’inclusione di Heade in una mostra storica dei paesaggi della Hudson River School al Metropolitan Museum of Art nel 1987.
il principale studioso di Heade e autore del catalogo ragionato di Heade, Theodore E. Stebbins, Jr., scrisse alcuni anni dopo la mostra della Hudson River School del 1987 che “… altri studiosi, me compreso, hanno sempre più dubitato che Heade sia più utile visto come in piedi all’interno di quella scuola “.
secondo il catalogo ragionato di Heade, solo il 40% circa dei suoi dipinti erano paesaggi. La restante maggioranza erano nature morte, dipinti di uccelli e ritratti, soggetti estranei alla Hudson River School. dei paesaggi di Heade, forse solo il 25 per cento era dipinto con argomenti tradizionali della scuola del fiume Hudson.
Heade aveva meno interesse per le viste topograficamente accurate rispetto ai pittori del fiume Hudson, e invece si concentrava sull’umore e sugli effetti della luce. Stebbins scrive: “Se i dipinti della riva così come le composizioni più convenzionali potessero indurre a pensare a Heade come a un pittore della Hudson River School, le [scene della palude] chiariscono che non lo era”

Heade nacque nel 1819 a Lumberville, in Pennsylvania, un piccolo villaggio lungo il fiume Delaware nella contea di Bucks, in Pennsylvania, e vi trascorse la sua infanzia. Fino alla metà degli anni 1850, la sua famiglia era proprietaria dell’edificio e gestiva ancora il negozio che ora è The Lumberville Store e Post Office, l’unico negozio di generi alimentari del villaggio. L’ortografia familiare del nome era Heed. Gli storici ritengono che abbia ricevuto la sua prima formazione artistica dall’artista folk Edward Hicks, che viveva nella zona. Nel 1839 Heade aveva dipinto i suoi primi ritratti e, dopo aver viaggiato all’estero e aver vissuto a Roma per 2 anni, nel 1841 espose la sua prima opera all’Accademia delle Belle Arti della Pennsylvania in Philaldephia. Heade iniziò a esporre regolarmente nel 1848, dopo un altro viaggio in Europa, e divenne un artista itinerante fino a quando non si stabilì a New York nel 1859.
l’interesse di Heade per i tropici fu suscitato almeno in parte dall’impatto del monumentale dipinto di Church Heart of the Andes (1859), ora nella collezione del Metropolitan Museum of Art. Heade viaggiò in Brasile dal 1863 al 1864 per dipingere una vasta serie di piccole opere, che alla fine contavano oltre quaranta, raffiguranti colibrì. Intendeva la serie per un libro in programma intitolato “Le gemme del Brasile”, ma il libro non è mai stato pubblicato a causa delle difficoltà finanziarie e delle preoccupazioni di Heade sulla qualità delle riproduzioni. Heade tuttavia tornò ai tropici due volte, nel 1866 in viaggio in Nicaragua e nel 1870 in Colombia, Panama e Giamaica. Ha continuato a dipingere opere romantiche di uccelli tropicali e vegetazione lussureggiante nella sua ultima carriera.

durante i suoi ultimi anni a St. Augustine Heade dipinse anche numerose nature morte di fiori meridionali, in particolare fiori di magnolia adagiati sul velluto. Questa era una continuazione di un interesse per la natura morta che Heade aveva sviluppato sin dagli anni ’60 dell’Ottocento. I suoi primi lavori in questo genere raffigurano tipicamente un’esposizione di fiori disposti in un vaso decorato di piccole o medie dimensioni su un tavolo coperto di stoffa. Heade è stato l’unico artista americano del 19 ° secolo a creare un corpus così ampio di opere sia nella natura morta che nel paesaggio.

Gustave Caillebotte, un impressionista quasi sconosciuto

Gustave Caillebotte
francese 1848 – 1894

Nacque da una ricca famiglia di industriali tessili e Inizialmente segue gli studi giuridici, diplomandosi nel 1870, ma l’amore per la pittura lo porta ad iscriversi all’Ecole des Beaux-Arts, dopo aver brillantemente superato il concorso di ammissione nel 1873. Alla morte del padre, nel 1874, eredita un notevole patrimonio che gli permette di dedicarsi a tempo pieno alla pittura. In questo periodo conosce Edgar Degas e Claude Monet, che lo presentano agli altri impressionisti; nel 1876, su invito di Pierre-Auguste Renoir, partecipa alla seconda mostra degli impressionisti. Il realismo dei soggetti trattati, soprattutto paesaggi urbani e rurali e scene di vita operaia, unito al senso vivo del colore e della luce tipico dell’impressionismo, sarà una costante di tutta la sua produzione artistica
Caillebotte è ricordato non solo come artista, ma anche come mecenate: la sua ricchezza personale gli permette infatti di acquistare opere di impressionisti e di finanziarne la terza esposizione, nel 1877. Come finanziatore e organizzatore partecipa anche alle edizioni del 1879, 1880, 1882 e alla trasferta a New York nel 1885.ù
Dopo il 1882 tenta inutilmente di tenere unito il gruppo impressionista, allora diviso da profonde lacerazioni e gelosie, ma, visti vani i suoi sforzi e deluso dal comportamento di alcuni, decide di abbandonare momentaneamente la pittura per dedicarsi alla navigazione da diporto e al giardinaggio.
A questo scopo si stabilisce a Gennevilliers, di fronte ad Argenteuil, dove acquista una casa in riva alla Senna; tuttavia, nella calma della campagna francese, il suo amore per la pittura rinasce e nel 1888 partecipa al Salon des XX di Bruxelles, recependo in parte le nuove tendenze neoimpressioniste
Muore a Gennevilliers dopo una breve malattia, il 21 febbraio 1894, a soli 46 anni.
Nel testamento dona la sua intera collezione, sessantacinque dipinti suoi e dei più grandi impressionisti, alla stato francese, a condizione che siano esposti prima al Museo del Luxembourg di Parigi, il museo d’arte moderna di allora, e poi al Louvre, Il fratello Martial e Pierre-Auguste Renoir, esecutori testamentari, devono superare l’opposizione dei pittori ufficiali dell’Accademia, che ottusamente pretendono di sceglierne alcuni e di scartarne altri: alla fine ne saranno accettati solo trentotto… che sciocchi!!
ho sempre pensato che il suo lavoro come i suoi quadri fossero poco considerati, ha sempre fatto parte dei “minori” fra gli impressionisti come anche Maufra, ma secondo me a torto, il suo modo di dipingere profondamente disprezzato in un primo tempo anche da Zola per le sue caratteristiche di “verismo” è invece la sua forza, sempre a mio avviso, perchè le sue non sono “fotografie” della realtà, ma interpretazioni della raltà e lo si recepisce soprattutto attraverso l’uso sapientissimo ed elegante che fa della prospettiva

Wassili Kandinsky o Der blaue Reiter

Wassili Kandinsky
russo 1866 – 1944

devo dire per correttezza che Kandinsky lo amo moltissimo e trovo i suoi pensieri sull’arte in generale da me convisibili, era anche il pittore preferito di mio padre ... II movimento Der blaue Reiter (II cavaliere azzurro) fondato da Wassili Kandinsky nel 1911, non è la seconda ondata (non fìgurativa), dell’Espressionismo nel quadro della cultura europea del tempo, ma va considerato in rapporto ed in contrasto al Cubismo, di cui riconosce l’azione rinnovatrice ma di cui contesta, come un limite a quell’azione stessa, il fondamento razionalistico, e, implicitamente, realistico
deve alla sua cultura orientale la spinta verso il rifiuto del razionalismo, in nome di un totale rinnovamento dell’arte in senso anticlassico, irrazionalistico, antinaturalistico. Per questo tutta la sua ricerca, la sua didattica, la sua attività artistico-promozionale (il Blaue Reiter e, più tardi, i corsi al Bauhaus) si impostano in posizione antitetica rispetto al Cubismo
al concetto di «forma e rappresentazione», Kandinsky contrappone quello di un’estetica fondata sul segno, egli crede alla forza simbolica dello spirito, che si manifesta in termini di lirismo intcriore, espressione della sensibilità immediata
dopo un primo periodo, a Monaco, legato ad una rappresentazione simbolica ispirata al folklore, all’arte popolare russa, e alla ispirazione musicale («Io cercavo» scriveva «di esprimere la musicalità della Russia mediante le linee e la distribuzione dei punti colorati»), arriverà, nel 1910, al suo primo Acquerello astratto nel quale, peraltro, non superava alcuni riferimenti di carattere naturalistico
la sua pittura, da allora, entrava sempre più in una fase musicale, è del 1911 il suo saggio «Dello Spirituale nell’arte», attraverso tre gruppi di opere che egli chiama Impressioni, Improvvisazioni, Composizioni, passerà da un riferimento naturalistico ad un tipo di pittura in cui le forme diventano cristalline, lucide, rendendo astratte anche le istanze mistico-simboliche
dopo il periodo del Blaue Reiter tornava in Russia, dove rimaneva fino al ’21, seguirà, a questi anni (durante i quali fu funzionario dell’amministrazione sovietica delle Belle Arti, e la sua produzione artistica fu molto rallentata), il periodo «freddo» del Bauhaus, quando aderirà definitivamente al Costruttivismo.
l’insegnamento al Bauhaus rappresentò per Kandinsky un lavoro enorme; prepara allora il suo noto testo «Punto, linea e superficie» nel quale difende la teoria della pittura, che, come quella della musica, ha lo scopo di «trovare la vita, rendere percettibile la sua pulsazione e fissare in quello che vive ciò che è conforme alla legge»….
egli analizza il punto, che è, allo stesso tempo, lo zero e il momento di intervallo tra il tacere e il parlare, e che, nella pittura, diviene elemento indipendente, se una forza esterna lo sposta sulla superficie, nasce la linea, retta se il punto è spinto da una sola forza, a zig zag o curva se due forze agiscono alternativamente, o allo stesso tempo.
la superfìcie, a sua volta, può essere mossa nello spazio, specialmente a mezzo del colore, l’ultimo periodo di lavoro di Kandinsky, a Parigi, rappresenta una sintesi straordinaria delle sue esperienze; sintesi di tecnica e intuizione, di irradiazione verso altre esperienze della sensibilità spirituale, in particolare verso la musica e verso il pensiero scientifico. Il colore, un colore splendente, sontuoso, simbolico, diventa allora protagonista assoluto.
da G.C.Argan:
“Kandinsky spiega che ogni forma ha un proprio, intrinseco contenuto: non un contenuto oggettivo o di conoscenza (come quello per cui si conosce e rappresenta lo spazio per mezzo di forme geometriche), ma un contenuto-forza, una capacità di agire come stimolo psicologico, un triangolo suscita moti spirituali diversi da un circolo: il primo da il senso di qualcosa che tende all’alto, il secondo di qualcosa di concluso, qualunque sia l’origine di questo, che potremmo chiamare il contenuto semantico delle forme, .l’artista si serve di esse come dei tasti di un pianoforte, toccando i quali «mette in vibrazione l’anima umana»”
ovviamente i colori sono forme come il triangolo o il circolo: il giallo ha un contenuto semantico diverso dall’azzurro. Il contenuto semantico di una forma muta secondo il colore a cui è congiunta (e reciprocamente), Kandinsky scrive:
«i colori pungenti risuonano meglio nella loro qualità quando sono dati in forme acute (per esempio il giallo in un triangolo); i colori profondi vengono rafforzati dal-le forme rotonde (per esempio l’azzurro dal cerchio)».
naturalmente non è detto che le qualità di un colore e di una forma debbano rafforzarsi l’una con l’altra, dice Kandisky: ” Il pittore può valersi delle scale discendenti come delle ascendenti,le possibilità combinatorie sono infinite e non soltanto una forma è significante perché ha, ma perché assume un significato, ma non diventa significante se non nella coscienza che la recepisce, allo stesso modo che una comunicazione non è tale se non viene ricevuta.”
per finire vi lascio ancora delle considerazioni di Argan , che a mio avviso ha meglio di tutti i critici, compreso e racconato questo straordinario pittore e pensatore e che devo dire mi trova quasi sempre in accordo con quanto wcrive:
G.C.Argan:
” lo spirituale per Kandisky non è affatto l’ «ideale» dei simbolisti: il simbolo è anch’esso una forma a cui corrisponde un significato dato, e va respinto, lo «spirituale» è il non-razionale; il non-razionale è la totalità dell’esistenza in cui la realtà psichica non è distinta dalla realtà fisica, il segno non preesiste come una lettera nella serie alfabetica èqualcosa che nasce dall’impulso profondo dell’artista e che dunque è inseparabile dal gesto che lo traccia
Nel primo periodo non-figurativo Kandinsky reagisce decisamente così alle ritmate cadenze lineari e cromatiche della Secessione come alla scomposizione analitica, secondo le coordinate geometriche, del Cubismo. Sembra rifarsi al primo stadio del grafismo infantile, alla fase che gli psicologi chiamano «degli scarabocchi»; è infatti proprio nell’ambito del Blaue Reiter che si radicalizza la diffusa esigenza del «primitivismo», identificato con la condizione di tabula rasa della prima infanzia. Evidentemente Kandinsky vuole riportarsi allo stadio iniziale di una pura intenzionalità o volontà espressiva, che non si appoggia ancora ad alcuna esperienza visiva e linguistica.

L’Arte è dunque la coscienza di qualcosa di cui non si può avere altrimenti coscienza: nessun dubbio che estenda l’esperienza che l’uomo ha della realtà e gli apra nuove possibilità e modalità di azione.
E di che cosa dà coscienza la coscienza che si realizza nell’operazione artistica?
Del fenomeno in quanto fenomeno. La coscienza «razionale» assume il fenomeno in quanto valore, ma nello stesso istante lo perde come fenomeno.
Lo scopo ultimo di Kandinsky è di portare alla coscienza il fenomeno come tale, di farlo accadere nella coscienza; e poiché il fenomeno è esistenza, ciò che si porta e si fa accadere nella coscienza è l’esistenza stessa.
Questa è la funzione insostituibile dell’arte.
E’ anche una funzione sociale. Se l’arte è comunicazione, e non v’è comunicazione se non vi sia un ricevente, una opera d’arte funziona soltanto in quanto colpisce una coscienza.

È un altro motivo di divergenza rispetto al Cubismo: un quadro cubista ha un funzionamento in sé, perfetto ed esemplare, è un modello di comportamento che lo spettatore può soltanto imitare mentalmente cercando di ripetere l’operazione «razionale» compiuta dall’artista sulla realtà.
Un quadro di Kandinsky è soltanto uno scarabocchio incomprensibile e insensato finché non venga a contatto con il tessuto vivo dell’esistenza del «fruitore» (è allora che si afferma il principio della fruizione e non della contemplazione dell’opera d’arte) e non gli comunichi il proprio impulso di moto: non è un modello, è uno stimolo”

Non è soltanto per il gusto della sperimentazione che Kandinsky, nel 1910, si libera da tutti gli apparati, i sistemi di rappresentazione di cui pure s’era servito nella precedente attività figurativa: è chiaro che vuoi mettersi nella condizione di chi non sa nulla degli espedienti e dei procedimenti dell’arte, non ne possiede il codice.
Il quadro non è una trasmissione di forme, ma una trasmissione di forze: è l’esistenza dell’artista che si collega direttamente con quella degli altri.

Reginald Marsh o della vita newyorkese

Reginald Marsh
americano 1898 – 1954

Reginald Marsh è stato uno dei migliori pittori e cronisti americani della vita urbana negli anni ’30 e ’40.ì, è stato l’ispiratore del film “Chicago” di Rob Marshall edappartiene a quella generazione di giovani artisti americani che, sotto l’influenza dell’impressionismo< e dell’espressionismo (e più tardi dietro la frenesia del jazz), dopo la prima guerra mondiale concentrarono la loro attenzione sulla riproposizione realistica delle scene di vita urbana newyorkese. Marsh, però, si espresse con una marcia in più rispetto agli altri, perché il mondo del cinema e dello spettacolo e, in contrapposizione, quello dei poveri e degli emarginati, lo attraevano in modo particolare. Quella, allora, era l’essenza della vita sociale delle metropoli americane e Marsh l’aveva avvertita con nettezza. Quindi, l’artista finì per ficcarcisi letteralmente dentro per coglierne, con assoluta libertà ed una vena di socialismo, le atmosfere più sexy, torbide e crude, tramite una pennellata secca e graffiante che ancor oggi suscita emozioni forti e coinvolgenti. Nelle opere di Marsh, infatti, la Grande Mela – rappresentativa anche delle altre grandi città statunitensi – pullula di sguardi lascivi e inquietanti, di gonne alzate dal vento (sbalorditiva anticipazione della Marilyn Monroe di “Quando la moglie è in vacanza”), di balli sensuali (ripresi forse anche oggi da “Paolo Conte” nel brano “Boogie”), di reporter al lavoro, di nuguli di ragazze al botteghino del cinema e di loschi figuri, tali da reimmergerci ” tout court” nei colori, negli stili e perfino nei suoni del tempo!
Quindi, non c’è da stupirsi se il direttore della fotografia di “Chicago”, Dion Beebe, ha pubblicamente dichiarato che: ” I set erano tutti ispirati ai quadri di Reginald Marsh” e che ” Quel tipo di atmosfera tornava anche sul palcoscenico, con i corpi e gli arti dei ballerini così intrecciati tra loro, tanto che abbiamo cercato di catturare quel senso di erotismo in ogni inquadratura “.
Un’atmosfera che, a mio avviso, si avverte perfettamente nell’intera pellicola del regista/coreografo Rob Marshall, il quale, dopo la conferenza stampa del film tenutasi nel prestigioso St. Regis Grand Hotel di Roma, in esclusiva per Pitturae dintorni, ha dichiarato che: ” Reginald Marsh è uno straordinario pittore degli anni trenta che sosteneva le cause dei poveri. Perciò nelle sue opere c’è un senso della vita e del suo scorrere nelle anime più umili della città

nacque a Parigi nel 1898, in un appartamento sopra il Café du Dôme, dove si riunivano artisti e scrittori. Marsh era il secondo figlio nato dagli americani Alice Randall, che dipingeva miniature e Frederick Dana Marsh, che dipingeva murales.
La famiglia era benestante, grazie al successo dell’attività di confezionamento della carne del nonno paterno di Marsh.
Quando Marsh aveva due anni, la famiglia si trasferì in una colonia di artisti a Nutley, nel New Jersey. Dopo aver frequentato la Lawrenceville School, è andato a Yale, dove ha lavorato come illustratore per The Yale Record .
Dopo essersi laureato a Yale nel 1920, Marsh si trasferì a New York, sperando di trovare lavoro come illustratore.
Iniziò a prendere lezioni alla Art Students League nel 1921. Il suo insegnante era Ashcan Painter, John Sloan, che ispirò Marsh a dedicarsi alla pittura.
Nel 1922, Marsh fu assunto dal New York Daily News, dove gli fu assegnato il compito di disegnare artisti di vaudeville e burlesque per una rubrica regolare.
Nel 1923 Marsh sposò Betty Burroughs, che era la figlia del curatore di pittura al Metropolitan Museum of Art e lei stessa una scultrice. Divorziarono nel 1933 e nel 1934 sposò la sua seconda moglie, Felicia Meyer, una pittrice di paesaggi.
Marsh ha tenuto la sua prima mostra personale al Whitney Studio Club nel 1924.
Nel 1925, il New Yorker iniziò a pubblicare e Marsh divenne un collaboratore regolare della rivista dal 1925 al 1944.
Marsh tornò in Europa nel 1925. Era in una galleria di Parigi quando incontrò il pittore regionalista americano Thomas Hart Benton . L’influenza sia di Benton che dei maestri europei, come Tintoretto, è evidente nelle opere di Marsh.
Quando tornò a New York nel 1926, Marsh iniziò a prendere meno lavori commerciali e iniziò a fare dipinti più seri. Era affascinato dalla folla e dalla classe operaia di New York e catturava il brusio della vita cittadina. Non faceva parte della classe operaia, ma ne era un osservatore.
Marsh ha lavorato a tempera e ha anche disegnato, fotografato e inciso. La sua incisione Bread Line — No One Has Starved , sottolinea la gravità della Depressione. Il titolo si fa beffe di un’osservazione del presidente Hoover. L’acquaforte è nella collezione permanente del Met.
Alcuni dei più grandi lavori di Marsh furono realizzati durante il Public Works of Art Project di FDR, progettato per dare lavoro ad artisti e scrittori durante la Depressione. Sorting the Mail , realizzato nel 1936, è uno sguardo magistrale in un momento della giornata di un impiegato delle poste.
Reginald Marsh divenne uno degli insegnanti più influenti dell’Art Students League, dal 1935 al 1954. Ha contribuito a influenzare uno stile e un carattere dell’arte che è unicamente americano.
Le opere di Marsh si trovano nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art, del Boca Raton Museum of Art, del Whitney Museum of American Art, del Vero Beach Museum of Art e di altri importanti musei e gallerie.
I suoi murales abbelliscono la dogana degli Stati Uniti a New York e l’ufficio postale degli Stati Uniti a Washington, DC
il 3 luglio 1954, Marsh subì un attacco di cuore e morì, all’età di 56 anni, nella sua casa di Dorset, nel Vermont.

Il Wadi Rum o della Valle della Luna

OGGI HO VOGLIA DI QUESTI SPAZI….

il Wadi Rum definito anche Valle della Luna, è un affascinante Spazio di sabbia rossa da cui si alzano montagne di Roccia, fu molto amato da Laurence d’Arabia, che ne conosceva anche i piu’ reconditi segreti.
si trova a 30 Km da Aqaba, quindi abbastanza vicino al Mar Rosso, ed è da tanti anni il mio posto delle Fragole. di solito per arrivare al piccolo villaggio di Rum si usa la macchina e poi se uno vuole a piedi o a cavallo
entrare nel Wadi Rum è come entrare in un altro Mondo, un luogo silenzioso, enorme, incredibilmente senza tempo
montagne massicce e sagomate spuntano dalla sabbia rosa/rossa, in questo scenario il deserto è vivo, palpitante, di una strana bellezza con le rupi torreggianti di pietra scavata dal tempo, e dai colori indefinibili e mutanti secondo le ore del giorno e le stagioni
tutto intorno è vuoto e silenzio e in questi spazi immensi, ci si sente rimpiccioliti ridotti a granelli di sabbia ed è una senzione straordinaria, avverti fin nel profondo di far parte di quel paesaggio
ti sembra di percorrere le antiche valli della luna, e di trovare ad ogni passo tesori nascosti da milleni, senti in lontananza il galoppo di L.D’Arabia, che rincorre le tue orme e le tue fantasie
l’aria calda sembra gonfiare le colline e i canyon, e il cielo è limpido, terso di un azzurro cupo e a volte violento
la notte ti riporta ad un cielo stellato, aperto, ci puoi leggere come in una antica mappa,l a tenda nera dei beduini è una macchia scura in un buio, mai veramente tale, i suoni di un rababa si perdono nello spazio come cerchi concentrici che si allontano con tenera malinconia
ascolti il suono del silenzio, dei ricordi, dei sogni e dei desideri, del futuro
amo il deserto del Wadi, come nessun altro posto che ho conosciuto, amo l’ospitalità semplice e sincera dei bedu, amo il gaue morra, forte, amaro con quel sapore di hel che ti resta nella bocca nel tempo, amo ascoltare le ballate di Abu Tarek che parlano di guerrieri e di duelli, di caccia e d’amore per splendide fanciulle dalla pelle di pesca, amo svegliarmi all’alba raccolta nella pelle di montone, col suo sapore aspro, non ancora perduto, amo le voci squllanti dei bambini trattenute per non disturbare, amo il pane sottile e trasparente cotto sulla pietra
amo sì amo la sensazione di libertà assoluta, dai pensieri, dal quotidiano, da me stessa

Nadar (Gaspard Felix Tournachon) o dei ritratti

Nadar (Gaspard Felix Tournachon)
francese 1820 – 1910

uno dei piu’ grandi fotografi che la storia ci abbia regalato, io amo moltissimo i suoi ritratti, è stato forse il primo vero grande fotografo
Il 6 aprile 1820 il quarantanovenne tipografo e libraio Victor Tournachon, figlio di un editore lionese, e la sua ventiseienne compagna, Thérèse Maillet, hanno a Parigi il loro primo figlio, Gaspard Félix, in arte Nadar , ma I Tournachon sono costretti, causa fallimento, a trasferirsi nel 1836 a Lione dove Victor morirà un anno più tardi lasciando la moglie, Nadar e il più giovane Adrien in condizioni economiche difficoltose. Nadar, appena diciottenne, si distacca dalla famiglia per trasferirsi a Parigi, dove inizierà gli studi di medicina. Capelli rossi scompigliati e baffi folti, un carattere estroverso, generoso e socievole, Nadar è capace di creare intorno a sé una cerchia di amici tra artisti, musicisti, giornalisti, poeti, scrittori, critici letterari, tutti uniti da valori di lealtà e libertà di espressione. Nadar proverà la sorte nella scrittura di saggi, articoli politici, recensioni teatrali e romanzi, ma diventerà famoso soprattutto per le sue caricature di uomini del mondo politico e intellettuale.
Cresciuto in un atmosfera politica liberale, Nadar gioisce nel 1848 per la vittoria del governo repubblicano sulla monarchia di Louis Philippe, una vittoria che gli permette di esprimersi artisticamente senza rischiare la censura. Partecipa ad una spedizione per liberare la Polonia dalla dominazione Russa con altri 500 volontari (si chiamerà per l’occasione Félix Turnaczewski) e riparte per la Prussia per valutare la proporzione della concentrazione russa alla frontiera. Di ritorno a Parigi, lavora per Journal pour rire, ma il compenso non è sufficiente, e nel 1850 divorato dai debiti che non riesce a saldare viene rinchiuso in carcere per un mese. Il colpo di stato di Napoleone III nel 1851 spazza via le speranze democratiche e limita la satira politica di Nadar che si dedica al disegno di personaggi celebri, riuniti in “Panthéon Nadar”, un lavoro arduo, incoronato da un vero successo di critica.
Nadar incoraggia il fratello pittore Adrien ad intraprendere lo studio della fotografia dal più grande maestro dell’epoca, Gustave Le Gray. La creatività di Adrien emerge, ma la collaborazione fra i due fratelli è infelice e conflittuale. Già nel 1855 i due si scontrano sul diritto d’autore e Nadar cita Adrien per essersi appropriato dello pseudonimo “Nadar jeune”. Nel 1857, appoggiato da numerosi intellettuali e artisti, vince la causa e Adrien, inghiottito dalla fama del fratello, ne rimarrà danneggiato. A causa dei continui disaccordi con Adrien, Nadar si trasferisce al rue Saint-Lazare dove vede salire il numero dei suoi modelli (filosofi, principi e ambasciatori). Il successivo studio, più moderno ed elegante, a Boulevard des Capucines attrae molti clienti tra cui anche i meno desiderati sostenitori reazionari di Napoleone III.
Nel 1872 lascia Boulevard des Capucines e il nuovo studio situato in un più modesto quartiere viene gestito da sua moglie, la protestante Ernestine-Constance Lefèvre, e da suo figlio Paul, dal 1895 proprietario unico dello studio. Nadar si trasferisce a Sénart, dove riprende la sua attività preferita: la scrittura. All’età di settantasei anni, nonostante una salute precaria, la sua vitalità non accenna a diminuire. Apre uno studio à Marseilles. Nel 1900, l’Exposition Universelle a Parigi gli dedica una prospettiva.
Nel 1903, dopo dieci anni passati in un ospedale psichiatrico, muore Adrien. Il 21 marzo 1910, un anno dopo la morte della moglie, si spegne Nadar, a Sénart, all’età di novant’anni.

Decine di migliaia di immagini. Un patrimonio di immenso valore fotografico e culturale, in parte a tutt’oggi all’esame di studiosi della fotografia. Nadar o il fratello Adrien? Chi è l’uomo che stava di fronte ai personaggi più eminenti della cultura del diciannovesimo secolo? E quando venivano effettuati quegli scatti sprovvisti di data? Per stabilire l’autore e una cronologia attendibile, i ricercatori analizzano il formato, il tipo di luce, il fondale e i mobili, la posa del soggetto e infine gli scambi di lettere e dichiarazioni. Ma per la maggior parte delle opere non vi è alcun dubbio: il più giovane Adrien, pur essendo dotato di grande sensibilità, non era all’altezza del fratello, uomo eccentrico, curioso, espansivo, comunicativo e generoso
Dopo un periodo amatoriale durato un anno, in cui eseguiva delle sedute informali con amici e familiari, dal 1855 al 1860 Nadar regala al mondo i suoi capolavori. Sono ritratti sontuosi, nei quali mette in risalto il carattere del soggetto attraverso gesti accentuati, persino drammatizzati. Nonostante presti un’estrema attenzione ai particolari (vestiti, cravatte, mantelli e foulard) il centro del suo interesse è sempre il volto. Maestro della luce, Nadar è capace di creare passaggi di tono che colpiscono persino l’occhio contemporaneo. Le sue sedute sono precedute da lunghe conversazioni che servono per rintracciare i vari aspetti della personalità del suo soggetto ed elaborare espressioni ed angolazioni.
E’ l’anno 1860 ed è di moda la “carte de visite” inventata e brevettata da Disderi sei anni prima. Quelle riproduzioni in miniatura, più economiche, diventano un fenomeno sociale, a cui Nadar, per non fallire, è costretto a partecipare, mettendo da parte la qualità. La luce che veniva dall’alto, dal soffitto vetrato, è più netta e priva di sfumature, le pose ripetitive, i vestiti più modesti e le scenografie più ricche di libri, sedie e tavoli. Sono due anni di prosperità, in cui la sua clientela si è perfino quadruplicata, ma la frenetica corsa al guadagno ha finito per renderlo un fotografo commerciale ed indaffarato, meno interessato alla ricerca artistica, dedito solamente a personaggi privilegiati come Sarah Bernhardt, Georges Sand, Edouard Manet, e Alphonse Daudet. Ma nel 1861 la mente nadariana viaggerà altrove. La sua passione per la medicina lo porterà a realizzare nove immagini di ermafroditi mentre la sua esigenza di innovare lo spingerà a scoprire le riprese con luce artificiale, tecnica che verrà da lui brevettata. Un uomo curioso e alla ricerca di emozioni, stupisce i parigini con i misteri delle catacombe e delle fogne (le prime fotografie mai effettuate sottosuolo). Affascinato dalla conquista dell’aria (nel 1858 effettua la prima fotografia aerea da una mongolfiera), Nadar fotografa le eliche come se fossero ritratti, esaltando forme e meccanica.

vi lascio alcuni ritratti col nome del protagonista e altri senza così magari cercate di riconoscerli!

E questi chi saranno? sono famosissimi!

“Van Gogh, sogni di Giappone”

“Van Gogh, sogni di Giappone” era il titolo di una splendida mostra alla Pinacothèque de Paris, nel 2012 L’esposizione intendeva documentare l’influenza che l’arte giapponese aveva esercitato sulla produzione di Vincent van Gogh, un’influenza profonda, che l’artista recepì con un entusiasmo e con una passione che traspaiono anche da diverse lettere che van Gogh scambiò con i suoi cari e con i suoi amici. La prima menzione di tale nuovo interesse risale a una lettera datata 28 novembre 1885. Van Gogh aveva da poco tempo lasciato Neunen, cittadina di campagna nel Brabante settentrionale, e si era trasferito ad Anversa, città dotata di uno dei porti più trafficati d’Europa, nel quale ogni giorno arrivavano carichi di merce da ogni angolo del globo. Dobbiamo immaginarci un van Gogh a passeggio per le strade della città belga, che s’imbatte in una delle tante stampe giapponesi che avevano preso ad arrivare in continuazione anche al porto di Anversa per poi essere vendute nei negozi della città. Questo sulla scia d’una moda partita in Francia una ventina d’anni prima, ma anche grazie all’impulso dell’Esposizione Universale del 1885, che si era tenuta proprio ad Anversa, e che aveva contribuito a far conoscere anche in Belgio l’arte nipponica. Nella lettera di cui sopra, Vincent scriveva all’amato fratello Theo di aver appeso una piccola serie di stampe giapponesi sulle pareti del suo atélier: “il mio studio è ora più sopportabile”. Van Gogh trovava infatti “molto divertenti” quelle “piccole figure femminili nei giardini o sul bagnasciuga, i cavallerizzi, i fiori, i rami spinosi e contorti”.
In breve tempo, Van Gogh riuscì a crearsi una collezione personale di stampe giapponesi (le japonaiserie, come le chiamava lui), favorito dal fatto che queste opere fossero in commercio a prezzi decisamente modici: anche un artista che, come lui, non navigava certo nell’oro, poteva permettersele. Tra le varie stampe che Van Gogh aveva acquistato, figurava il celebre Ponte di Shin-Ōhashi sotto la pioggia, opera di Utagawa Hiroshige (1797 – 1858).

L’opera appartiene al genere noto come ukiyo-e (letteralmente, “immagini del mondo fluttuante”). Si trattava di stampe su carta realizzate con l’uso di matrici in legno, che rappresentavano soprattutto paesaggi o scene di vita quotidiana, e che utilizzavano uno stile fondato sull’uso di prospettive spesso ardite e di punti di vista insoliti, sulla concentrazione dell’azione principale in un punto preciso del dipinto (tipicamente in primo piano), sull’assenza di simmetria, sulle vedute a volo d’uccello. I colori venivano stesi con campiture uniformi su aree rigidamente delimitate da contorni scuri, quasi del tutto prive di sfumature e di effetti chiaroscurali. Sono tutte caratteristiche che ritroviamo nel Ponte di Hiroshige. I particolari principali dell’opera si concentrano tutti verso il basso: il ponte di legno, i personaggi che occupano il centro della composizione e che sembrano quasi correre, riparandosi dall’acqua (da notare come non proiettino ombre sul suolo: è tipico degli ukiyo-e), l’imbarcazione che sopraggiunge da sinistra. Anche le diverse tonalità di blu che l’artista utilizza per descrivere fiume e cielo sono rigidamente distinte (solo in prossimità dei bordi vediamo sfumature), mentre la pioggia è suggerita semplicemente da linee nere che solcano tutta la xilografia in verticale (il rapporto tra linee verticali e linee orizzontali è fondamentale negli ukiyo-e in quanto detta la struttura su cui vengono organizzate le scene).
Nel 1887, Van Gogh realizzò, a partire dal Ponte di Hiroshige, un dipinto oggi conservato al Van Gogh Museum di Amsterdam.


L’artista olandese decise di conservare il senso del dinamismo di Hiroshighe (raggiunto in quest’opera soprattutto per mezzo del punto di vista laterale), reinterpretandolo però secondo la propria sensibilità: osserviamo sulla superficie del fiume rapidi tratti di pennello, tipici dello stile di Van Gogh, che permettono di accostare varie tonalità di blu e di verde al fine di suggerire il movimento dell’acqua. Le pennellate si fanno più larghe vicino alle pile del ponte contro le quali si infrangono i flutti, e per le stesse pile vengono utilizzati toni diversi di marrone. Inoltre, il pittore arricchì la cornice con finte scritture, che non hanno alcun significato letterale perché Van Gogh non conosceva il giapponese, ma contribuiscono a dare un tono esotico e orientaleggiante alla composizione


Il fatto che Van Gogh non mirasse a creare copie fedeli degli originali giapponesi traspare anche dal Susino in fiore, un’altra japonaiserie del 1887 realizzata a partire da un’ulteriore stampa di Hiroshige, il Giardino di Kameido, del 1857. Le delicate tonalità di rosa che Hiroshige aveva utilizzato per il cielo vengono trasformate in un rosso denso e forte da Van Gogh, che utilizzò colori decisamente più vividi rispetto a quelli delle stampe giapponesi, benché si dimostrasse incline a conservare il modo di stendere le campiture, uniforme e racchiuso da un contorno nero: e giova ricordare come il ricorso al nero e l’utilizzo del contorno, pratiche che gli impressionisti avevano di fatto abolito, erano state reintrodotte da Van Gogh, che faceva uso del nero e del contorno con l’obiettivo di creare effetti di contrasto tra gli elementi delle sue composizioni.

Utagawa Hiroshige, Il giardino di Kameido
Vincent Van Gogh, Susino in fiore 

Per quale ragione Van Gogh era così fortemente attratto dall’arte giapponese? Sono soprattutto tre i motivi che rendono le stampe di Hiroshige e altri interessantissime agli occhi di Van Gogh: la prospettiva, la semplicità e i colori. L’arte olandese prediligeva il punto di vista centrale: per Vincent, quegli scorci così arditi e quei punti di vista così insoliti rappresentavano impressionanti novità. L’acquisto, da parte di Van Gogh, delle stampe giapponesi e, in certi casi, la reinterpretazione (come per il Ponte e il Susino di cui sopra) erano attività finalizzate allo studio di nuovi punti di vista da applicare ai propri paesaggi. Sulla semplicità, così Vincent si esprimeva in una lettera a Theo, il 24 settembre 1888: “Quello che invidio ai giapponesi è l’estrema limpidezza che ogni elemento ha nelle loro opere […]. Le loro opere sono semplici come un respiro, i giapponesi riescono a creare figure con pochi tratti, ma sicuri, con la stessa facilità con la quale noi ci abbottoniamo il gilé. Ah, devo riuscire anche io a creare delle figure con pochi tratti”. E anche il modo di stendere i colori attraverso masse uniformi racchiuse da contorni scuri, così nuovo e diverso rispetto alle campiture che l’artista era abituato a vedere nelle opere dei suoi conterranei, avrebbe iniziato ben presto a entrare anche nelle sue opere d’arte.

L’arte giapponese non era però sufficiente a conferire all’arte di Van Gogh quella luminosità e quei colori accesi tanto agognati: così, nel 1888 Vincent decise di lasciare Parigi per trasferirsi nel sud della Francia, stabilendosi ad Arles, splendida cittadina di antiche origini vicina alle paludi della Camargue. La meta non fu scelta a caso: Van Gogh trovava che ci fosse un solido legame tra il meridione francese (le Midi, come lo chiamano i francofoni) e il paese del Sol Levante. Le ragioni del trasferimento furono affidate, come sempre, ai suoi carteggi: tra le più significative è possibile annoverare quella scritta il 18 marzo 1888, da Arles, al pittore Émile Bernard. Nella lettera, Van Gogh diceva che Arles era il posto ideale per “gli artisti che amano il sole e il colore”, e che le atmosfere della cittadina gli ricordavano proprio quelle del Giappone per la loro limpidezza e per gli splendidi colori dei paesaggi: “i corsi d’acqua creano bellissime macchie blu e smeraldo nel paesaggio, come si vede nelle stampe giapponesi, i tramonti d’un arancio pallido fanno sembrare azzurri i campi, e il sole è d’un giallo splendido”. E tutto ciò, osservava Vincent, solo nel mese di marzo: l’estate avrebbe riservato ancora più sorprese. C’è un dipinto che sembra dar forma a tutti questi pensieri: il Seminatore, un’opera del 1888 oggi conservata al Kröller-Müller Museum di Otterlo, nei Paesi Bassi.


un grande grazie a Federico Giannini!!

Henri Moret o i suoi colori dell’anima

Henri Moret
francese 1856 – 1918

figlio naturale di Louise Moret, nato da un padre sconosciuto, non vi è nessun dettaglio della sua infanzia, durante il servizio militare a Lorient , Henry Moret scoprì la costa meridionale della Bretagna e divenne allievo del pittore di Lorient Ernest Coroller
fu quindi ammesso all’École des beaux-arts de Paris nei laboratori di Jean-Léon Gérôme e Jean-Paul Laurens nel 1876, e frequentò lo studio di Henri Lehmann , poi l’ Académie Julian a Parigi .
ha iniziato al Salon degli artisti francesi nel 1880 e Incontra Marius Gourdault , un pittore impressionista che soggiorna a Doëlan per l’estate , che poi diventerà un amico. Nel 1881 espone al Salon des Artistes Français e al Salon des Indépendants , per poi trasferirsi a Le Pouldu . “Di carattere indipendente, alloggiato presso il padrone del porto Kerluen e non presso la pensione Gloanec , si lega comunque rapidamente a tutto il gruppo degli impressionisti ” e nel 1888 incontra Paul Gauguine i suoi amici a Pont-Aven . Entra a far parte del suo gruppo e diventa uno dei rappresentanti più interessanti dell’École de Pont-Aven . Nel 1890, si unì a Gauguin e ai suoi amici alla locanda di Marie Henry a Pouldu e poi si trasferì a Doëlan, dove tornò a una tecnica pittorica più impressionista e lavorò sotto contratto per la galleria Durand-Ruel

nel centenario dalla morte di Paul Gauguin (1848-1903) furono esposte a Napoli circa cento opere in una mostra dedicata a Paul Gauguin e la Bretagna, dal titolo ” I colori dell’anima”, realizzate dall’artista francese e da alcuni artisti attivi in Bretagna tra il 1886 e il 1894 e credo che il titolo di quella mostra si adatti molto bene all’opera di Moret, che diede il suo contributo allla cosiddetta scuola di Pont-Aven, formata, fra gli altri da Émile Bernard, Maurice Denis, Charles Filiger, Georges Lacombe, Roderic O’ Conor, Émile Schuffenecker e Paul Sèrusier
la luce della Bretagna, la campagna selvaggia e le coste battute dai venti dell’Atlantico, insieme ai riti e ai costumi popolari, sono i temi preferiti del gruppo, sensibile alla raffinata tradizione delle stampe giapponesi e dell’antica tecnica medievale del ‘”cloisonné”.
presi dalla comune tensione estetica verso soluzioni formali e cromatiche del tutto nuove nel panorama artistico
di fine Ottocento
affascinato dal mare e dalla Bretagna, Moret usò colori profondi e pennellate vigorose per catturare la sua violenza e il suo movimento..
combinando la semplicità ispiratagli dalle stampe giapponese con la tecnica di Impressionista, creò così una miscela magica formata da composizioni semplici e splendide sfumature

i suoi colori e le sue forme sono direi “verosimili”, nello stempo sognanti e veri, una via di mezzo tra il sogno e la realtà. il segno è potente e sicuro e lascia intravedere spazi non dfiniti anche all’interno di realtà ben precise
io ho amato molto questo pittore che come Mufra (che troverete QUI) ha “cantato” la Bretagna, terra a me particolarmente cara, terdove a 17 anni partii per il mio primo lavoro importante, terra dove tornai amante felice qualche anno dopo e dopo ancora con al seno il mio pulcino
ci sono nelle tele di Moret, i luoghi dei miei soggiorni e dei miei momenti felici, colmi di sogni colorati come colorato è il suo mare
ebbi la fortuna per un caso della vita o meglio per un incontro davvero particolare di incontrare un vecchio Signore che è il piu’ grande collezionista delle opere di Moret, (moltissime opere di Moret appartengono a collezioni private) e che mi ha lasciato e mi lascia la possibilità di goderle quando ne ho voglia e quando posso anche
se ora non c’è più e questo a volte penso sia un segno del destino…

i girasoli in vaso di Vincent Van Gogh

Vincent Van Gogh, Vaso con dodici girasoli, Dettaglio
Monaco di Baviera, Neue Pinakothek

“Il girasole è mio” dichiarò una volta Van Gogh, dimostrando come per il pittore questi fiori avessero un significato profondo: offrire conforto ai cuori turbati. Per Van Gogh, l’associazione del girasole con l’arte e con l’amore potrebbe aver incluso l’idea dell’arte (ma anche del sodalizio e della collaborazione) che sperava di forgiare con Gauguin.
Nel febbraio del 1890 il pittore scrisse al critico Albert Aurier suggerendo che le due immagini di girasoli che esponeva a Bruxelles (le versioni di Monaco e di Londra) avrebbero potuto “esprimere l’idea di gratitudine”.
E, al tempo stesso, gratitudine all’amico Paul Gauguin, sorprendendolo con una esplosione di colore, giallo come la felicità.
iniziò a dipingere un singolo girasole in un orto e finì con un’opera che divenne famosa nel mondo: Vincent Van Gogh realizzò cinque quadri che accolgono lo stesso soggetto, i Girasoli, conservati alla National Gallery di Londra, al Van Gogh Museum di Amsterdam, alla Neue Pinakothek di Monaco, al Philadelphia Museum of Art e al Sompo Museum di Tokyo.
Il giallo, secondo Van Gogh, poteva alludere alla felicità. Ma era anche il colore della Provenza e un omaggio al pittore provenzale Monticelli che “dipinse il Sud della Francia tutto in giallo, tutto in arancione, tutto in zolfo”.
Anche Van Gogh ha creato un simile effetto di calore incandescente, in particolare con le teste circolari dei semi, che sembrano sostituire il sole stesso.
Non può esserci pianta più adatta dei girasoli per regalare, in un momento, come quello che stiamo vivendo, di lontananza dall’arte e dal mondo, un po’ di umana vicinanza.
La stessa che Vincent ricercava nell’amico Paul Gauguin che definiva i dipinti di girasole “completamente Vincent”. Per lui Van Gogh dipingeva questi soggetti che lo avrebbero consacrato per sempre come “il pittore dei girasoli”.
“Ci sto lavorando ogni mattina, dall’alba in avanti, in quanto i fiori si avvizziscono così rapidamente” scriveva da Arles al fratello Theo, rivelando la sua attività febbrile, in previsione dell’arrivo di Gauguin alla Casa Gialla. Fu qui, nel Sud della Francia, che tra il 1888 e il 1889 Van Gogh realizzò alcune delle sue più tele più celebri, accanto a quelle dipinte, due anni prima, nel quartiere parigino di Montmartre. “Vorrei fare una decorazione per lo studio. Nient’altro che grandi girasoli” annunciava a Theo, sperando che l’arrivo di Gauguin potesse rappresentare il primo passo per dare vita ad una nuova “associazione” di artisti.
la serie dei girasoli in vaso, la più famosa, nacque proprio in questi anni di vitalità e ottimismo, durante l’estate, mentre Vincent attende con ansia l’arrivo di Paul. Per abbellire la stanza del suo ospite e impressionarlo aveva previsto di dipingere una dozzina di tele. Ma il progetto si fermò a sette girasoli e anche la vita in comune con Gauguin, arrivato ad Arles il 23 ottobre 1888, si arrestò dopo soli due mesi di convivenza.
Dopo lo scontro, avvenuto il 23 dicembre dello stesso anno – quando Van Gogh minacciò l’amico con un coltello e poi si tagliòparte dell’orecchio sinistro – Gauguin tornò a Parigi. Sebbene i due non si siano mai più rivisti, continuarono a scambiarsi lunghe lettere e Gauguin chiese a Van Gogh di realizzare per lui un dipinto con i girasoli.
Per dipingere i suoi fiori preferiti il pittore utilizzò tre tonalità di giallo – tre gialli cromati, il giallo ocra e il verde veronese “e nient’altro” – dimostrando come fosse possibile creare un’immagine con numerose variazioni di un singolo colore, senza alcuna perdita di eloquenza.

Girasoli della National Gallery – Londra


In questa tela, i quindici girasoli vengono riprodotti dall’artista in diverse fasi del loro ciclo di vita, dal germoglio giovane fino alla maturità e all’eventuale decadimento e morte. Il bocciolo nell’angolo in basso a sinistra deve ancora raggiungere il pieno fiore, sette fiori sono in piena fioritura e gli altri sette hanno perso i loro petali e si stanno trasformando in seme.
I tratti lunghi seguono la direzione di petali, foglie e steli, le cui linee sinuose richiamano quelle dell’Art Nouveau. L’artista ha sfruttato la consistenza rigida delle nuove pitture ad olio introdotte nel XIX secolo per creare spessi effetti di impasto.
L’opera fu realizzata nel 1888 e segue le pitture floreali olandesi del XVII secolo che sottolineano la caducità della natura umana. Acquistata dalla National Gallery con il contribuito del Courtauld Fund nel 1924, è l’opera della collezione più venduta e riprodotta nel merchandise.


i Girasoli della Neue Pinakothek di Monaco


Vincent realizzò quest’opera nell’agosto nel 1888 nel suo atelier di Arles, mentre aspettava l’arrivo di Paul Gauguin. La tela rappresenta un vaso di fiori, con la base di supporto e lo sfondo. Una luminosità rara si sprigiona dal turchese – scelto come colore dello sfondo – che accentua le tonalità gialle e marroni dei petali dei grandi fiori gialli. In essi è tutta racchiusa l’idea della Provenza d’estate e della vita trascorsa dall’artista olandese in un periodo in cui, nella sua testa, bussava spesso un sogno: vivere in una sorta di “comune di artisti”.
Il dipinto ospitato a Monaco di Baviera è una delle più importanti versioni dei Girasoli. L’artista considerava questa versione complementare a quella esposta alla National Gallery di Londra.


Girasoli del Van Gogh Museum di Amsterdam


Vincent dipinse questa versione dei Girasoli a gennaio del 1889 durante il suo soggiorno ad Arles, un mese dopo la brusca interruzione della convivenza con Gauguin. La firma dell’artista si trova sul vaso: come i grandi maestri del passato usava solo il proprio nome di battesimo.
Una ricerca condotta su questo capolavoro presso il Van Gogh Museum ha fornito molte nuove informazioni sulle condizioni del dipinto e sui materiali utilizzati da Van Gogh. Una delle conclusioni è che l’opera è stabile, ma fragile, conclusione che ha spinto la direzione a decidere di non spostare mai più il capolavoro da Amsterdam. L’opera era stata prestata solo sei volte nei 46 anni di storia del museo. L’ultima volta è stata nel 2014, quando il dipinto era volato alla National Gallery di Londra per essere esposto insieme alla versione di Girasoli della collezione inglese.
I Girasoli di Amsterdam sono stati dipinti su un particolare rotolo di lino. Ci sono più strati di vernice sulla tela, tutti aggiunti in un secondo momento e non dallo stesso Van Gogh. Si tratta di strati sporchi e ingialliti che non possono essere rimossi perché in alcuni punti risultano mescolati alla pittura originaria.


Girasoli del Philadelphia Museum of Art


È probabile che questa versione a dodici fiori, conservata presso il Philadelphia Museum of Art, risalga al mese di gennaio del 1889, così come le due copie della versione a quindici, custodite al Van Gogh Museum e al Sompo Japan Museum of Art di Tokyo.


Girasoli del Sompo Japan Museum of Art di Tokyo


Con la lussureggiante composizione di quindici girasoli in un barattolo giallo attorno ad un singolo fiore, con un punto rosso simile ad un occhio, van Gogh celebra la bellezza della vita, infondendo a ogni singolo girasole il suo impatto espressivo. L’opera è dipinta su una porzione di un foglio di tela di 20 metri acquistato da Gauguin quando venne a vivere e lavorare con van Gogh ad Arles.

grazie infinite dell’aiuto a Samantha De Martin

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